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Come liberarsi della “droga” Facebook? (E come era la mia vita appena 4 anni fa…)

Da un paio di mesi – ormai quasi tutti i giorni – mi domando se non sia arrivato il momento di cancellarmi da Facebook. Non sono ancora riuscito a darmi una risposta, anche se le motivazioni ci sarebbero e sarebbero veramente serie. Facebook nuoce gravemente alla salute.

Io ne sono un utente molto attivo. Condivido articoli, talvolta anche materiale più privato (foto, riflessioni), partecipo a discussioni. La mia comunità di ‘amici’ conta oggi 1.338 persone: di queste, una manciata sono quelle che conosco direttamente, un’altra manciata qualle che conosco solo virtualmente. Tutti gli altri sono bit: di loro non so nulla, né mi interessa nulla, eppure nutro il mio ego accettando le nuove richieste di ‘amicizia’ da gente di cui ignoro tutto ma che sono per me solo un nome, un cognome, una fotina.

D’altro canto – mi dico – uno che vuole fare il giornalista non può boicottare Facebook: lì può fare indagini, capire le tendenze, cercare notizie, persino approfondire.

Oggi, però, mi sono imbattuto in questa riflessione di Pierpaolo Capovilla, cantante de Il Teatro degli Orrori. Non ho potuto fare a meno di leggere. ‘Disattivo le mie pagine Facebook’, era il titolo della riflessione, che riporto integralmente.

Arrivederci a tutti nella vita reale, ed in particolare ai concerti “dal vivo”, appunto.
I social network possono essere certamente utili per rendere possibile un’interlocuzione fra il singolo e la società, ma ho l’impressione che siano diventati (forse lo sono sempre stati) dei luoghi dove lo scambio di idee troppo spesso diventa semplice ostentazione narcisistica, e dove quelle idee le esprimiamo con una compulsività tale -parlo anche e sopratutto per me stesso- da risultare null’altro che l’espressione di impulsi sociali dettati da un individualismo egotistico virulento, di cui mi voglio al più presto liberare.
Si ha un bel dire dell’importanza politica dei social network in quei paesi dove ancora le società aspirano alla democrazia e al libero scambio di informazioni ed opinioni, cosa certamente vera. È altrettanto vero che in una società aperta, i social network diventano l’estensione di un edonismo tutto interno ai meccanismi più profondi della società dei consumi. Invece di unire, dividono: invece di farci incontrare, ci chiudono nella privatezza dei nostri avatar. Per come la vedo io, i social network dovrebbero rappresentare un’occasione di democrazia e di diffusione delle idee, ma non è così: implementano il nostro desiderio di apparire, impoveriscono il linguaggio e con esso l’ interlocuzione stessa, rendono caotica la nostra visione delle cose e del mondo. Dopo lunghe giornate di lavoro, ci rubano il tempo prezioso che ancora ci rimane per dedicarci alla vita vera, nostra e dei nostri affetti, ci spingono verso un presente interminabile, obliando il passato, nascondendo il futuro. Le nostre solitudini sono reali: temo che illuderci di emanciparle nella virtualità della rete, sia un grave e strategico errore relazionale.
Certo, mi spiace per quel “contatto diretto” che il social network mi ha sempre reso possibile: quel filo diretto fra la mia persona e chiunque voglia dirmi qualcosa, sia quel qualcosa un’espressione di affetto o di rabbia, un suggerimento o una critica, un contributo o persino -va da se- un bel vaffanculo. Non mi duolgo per coloro che hanno tentato e tentano di intromettersi nell’amministrazione delle mie pagine: è non soltanto illegale, ma moralmente riprovevole. Pazienza.
Vi rinuncio a malincuore, lo ammetto: per questo mi riprometto di registrare presto in rete un sito ed un blog attraverso i quali mantenere una qualche forma di relazione diretta fra di noi. È una cosa a cui tengo molto, ma non la voglio più affidare ad un social network, perché mi ha profondamente deluso: non produce discussione, ma soltanto chiacchiericcio, riflessioni nervose, frettolose e spesso incivili, piccole e grandi molestie reciproche, spesso associate a quella malignità tutta italiana che sembra uguale al disagio da sovraffollamento nel traffico urbano: tutti nella propria autovettura a dileggiare gli altri sfortunati automobilisti: qualunquismo di fondo, tristezza, angoscia sociale.
Viviamo in un paese dove televisioni, radio e stampa sono sostanzialmente in mano a pochissimi soggetti economico/politici. Il pluralismo nell’informazione è illusione e spettacolo: lo chiamano elegantemente info-tainment. I media dettano l’agenda delle nostre discussioni, del nostro vocabolario, dei nostri pensieri. L’istruzione pubblica è stata squalificata e vilipesa dal ventennio berlusconiano, e non vedo all’orizzonte alcun desiderio sociale di riscatto da questo desolato deserto culturale.
Ho creduto e ancora credo che la rete potesse e possa costituire un “contro-potere” a questo stato di cose, ma temo che il sentiero da percorrere sia ancora lungo.
Si dice e si pensa: la comunità virtuale ti permette di vivere la contemporaneità fino in fondo: senza social network sei tagliato fuori, sei fuori dal mondo. Io credo sia vero l’esatto contrario: i social network sono parte integrante del problema, non della soluzione.
Spensi la tv vent’anni or sono. Spengo soltanto oggi questo tranello chiamato FaceBook.
Buona vita a tutti, con l’augurio, a voi tutti e a me stesso, di fare buon uso delle nostre passioni, aspirazioni e desideri, della nostra voglia di cambiare questo paese, e di renderlo più uguale e più giusto: è una battaglia per niente facile ed irta di ostacoli spesso così grandi da farci pensare che non valga la pena d’esser combattuta.
Love to You All.

La nota di Capovilla mi ha fatto riflettere ancora, nonostante da mesi pensi spesso a Facebook. Da quanto tempo sono un utente del social network? La mia ‘carta d’identità’ dice che vi sono piombato il 21 settembre 2008. Solo iscrizione. Il primo ‘vagito’ l’ho dato dopo 10 giorni postando una foto. Per diversi mesi la mia attività è stata scostante e rara, poi pian piano si è intensificata, finché nel giugno del 2009 probabilmente ho iniziato a ‘fiutare il pericolo’ e per un po’ sono sparito dalla circolazione. Ma sono tornato e da allora, quasi tre anni fa, sono stato un docile e fedele utente di Facebook.

Ma come era la mia vita prima del settembre 2008? 

Bella. Normale. Semplice. Diversa da ora, di sicuro. Non voglio dire migliore, né peggiore. Avevo solo amici veri, in carne ed ossa. Erano pochi, ma quando avevo bisogno di loro li chiamavo al telefono o andavo a trovarli a casa. Qualche volta ho utilizzato la mail per comunicare, ma erano casi estremi. Non avevo una buona opinione di chi scriveva ‘e mail’, pensavo che il telefono esistesse proprio per rendere ‘presente un’assenza’. Gli ‘eventi’ li leggevo sui manifesti, al massimo me li diceva qualche amico.

Uscivo di più, anche, credo. Quando tornavo a casa dal lavoro, che era più o meno lo stesso di ora, in una redazione di un giornale, non mi sognavo neppure di accendere un computer. Anche perché a casa non ce l’avevo. Vivevo a Roma, in un appartamento di Centocelle con un caro amico, Andrea, poi con Ermelinda (la mia compagna di oggi) e Anna. Una sera io e Andrea indossammo i vestiti delle donne. Per un breve periodo, fumavamo in casa e arrangiavamo discorsi sui massimi sistemi. Andavo a correre più spesso. Andavo in bicicletta più spesso. Mi appassionai al tennis, ma anche quella fu una meteora, perché dopo venne il periodo che passavo ore a trovare accessori per aggiustare la mia vecchia bici.

Giocavo, giocavamo, più di ora. Parlavo di più con delle orecchie in carne ed ossa, che con un decodificatore di impulsi elettronici. Ho imparato il significato della parola ‘chat’ solo quando mi sono iscritto a Facebook, mai prima. Stare lontano da Internet non mi faceva nessun effetto: oggi so che andrei in crisi di astinenza. Ero più creativo, avevo un colorito migliore, dovevo impiegare il tempo libero sapendo che non c’era il rifugio di un altro mondo, quello di Facebook, a soccorrermi.

Oggi non è più così: sono anche io chiuso in questa grande gabbia. Che è una gabbia, ma ti fa pensare che quelli ‘out’ siano quelli fuori, i pochi amici residui che mi dicevano ‘io Facebook non ce l’ho’. E’ una gabbia nella misura in cui, è vero, raramente su Facebook si producono discussioni approfondite. Il suo stesso meccanismo fagocita tutto ed è raro che uno ‘status’ si sviluppi in più di una dozzina di commenti, sempre tra i soliti ‘amici’. E’ assai più frequente, invece, che anche buoni contenuti svaniscano dopo pochi minuti nel dimenticatoio. In più alimenta piccole e morbose discussioni, gelosie, invidie. Ci allontana, più che avvicinarci, e lo fa traendoci nel tranello di farci sentire parte di un grande gruppo di ‘amici’.

Non solo: anche Facebook ha una struttura gerarchica, nonostante voglia far intendere il contrario. Ci sono quelli ‘importanti’, e le loro opinioni spopolano e le loro facce diventano fanpage e si riproducono in altre pagine ancora e ancora. ‘Loro’ parlano, a centinaia rispondono: se le risposte non aggradano la censura è sempre applicabile. Poi ci sono gli altri, e sono milioni, che affidano a Facebook le proprie riflessioni, i propri lavori, la promozione di sé, ma il seguito che hanno è minimo. Anche in questo mondo parallelo, fintamente orizzontale, il logo conta più della sostanza. Altro che ‘occasione di partecipazione’.

E anche sul protagonismo dei social network nelle rivolte dell’ultimo anno penso che non sia il caso di mitizzare. Facebook ha favorito la circolazione di informazioni, ma la carne, la pelle, il sangue sulle strade, non erano quelli di profili virtuali. Le rivoluzioni non si fanno con facebook, si fanno mettendoci il corpo.

Si dice che ognuno debba vivere nel suo tempo. Questo è il temnpo di Facebook, ma inizia a starmi stretto. Bisogna che prenda in considerazione l’idea di mandare in malora questa maledetta gabbia.